In fuga dal lavoro: ma da quale?

Sulla sagoma in nero di un edificio in costruzione, una squadra di operai edifica l'ultimo piano sotto un cielo grigioazzurro

Reddito di cittadinanza, smart working, Great Resignation... nessuno vuole più lavorare, ci dicono, ma bisogna capire cosa si intende per "lavoro"


"Nessuno vuole più lavorare!"

Nessuno vuole più lavorare, ci dicono.

Internet, i social media, i giornali, i talk in televisione, i politici sembrano tutti d'accordo: ormai la gente (soprattutto i giovani, ovviamente) non ha più voglia di rimboccarsi le maniche e di fare, preferisce stare sul divano a percepire il reddito di cittadinanza, o magari tentare la fortuna come influencer o maghi delle criptovalute.

E anche chi lavora spesso pretende lo smart working.

O tempora o mores, pare quasi di sentir dire.

In un modo o nell'altro, in questi ultimi anni si è parlato davvero molto di una vera o presunta "fuga dal lavoro", tanto in Italia come all'estero, con la Great Resignation statunitense e il "restare a terra" cinese.

Quindi i critici hanno ragione, il Mondo sta scivolando nel disimpegno e nella pigrizia?

Prima di rispondere a questa domanda, dobbiamo intenderci su cosa chiamiamo "lavoro".       


La maledizione di Adamo e l'otium romano

Una realtà che oggi in certi ambienti è diventata tabù ma è di fatto accettata quasi da tutti è che per la maggior parte delle persone il lavoro svolto ogni giorno in fabbrica o in ufficio è più che altro una necessità: non a caso proprio in questa veste ci viene presentato persino nella Bibbia, più precisamente in Genesi 3,19: Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai!

Questa secondo le scritture, la maledizione di Adamo (quella di Eva, qualche versetto prima, è la procreazione, cosa a sua volta su cui meditare): altro che attività nobilitante, missione, ragione di vita!

E stiamo parlando appunto delle Scritture, non di un manifesto di estrema sinistra...

In fondo, se lo Stato italiano continua a incassare miliardi con i proventi delle lotterie, e se almeno all'estero l'argomento "pensioni" suscita passioni violente, non è certo perché milioni di persone sognino di passare ancora anni tra la catena di montaggio e i documenti Excel.  

Questo, tuttavia, non è l'unico percorso possibile: definizione alla mano, infatti, vediamo come sia "lavoro" qualsiasi attività che ci impegni e produca un risultato, senza riferimenti al bisogno di sostentamento o di retribuzione. 

Da questo punto di vista "lavoro" è tutto ciò che crea qualcosa di valore per noi stessi o per gli altri, hobby inclusi. 

A meno che non restino tutto il giorno seduti davanti alla televisione (scelta peraltro legittima, eh), il vincitore della lotteria e il pensionato non fuggono quindi dal lavoro in senso lato, fuggono dalla necessità di svolgere una data attività per sopravvivere, evitano quella che nei forum americani chiamano wageslavery (schiavitù stipendiata), a favore invece di quello che i Romani chiamavano otium: non l'ozio come lo intendiamo noi, bensì i momenti sottratti al tempo dedicato agli affari (il negotium) per coltivare sé stessi e i propri progetti tra letture, scrittura, dotte discussioni, sport.

Per tante attività, la differenza tra maledizione e otium la fa la necessità: ad esempio, io curo questo blog e mantengo un micro-orticello, ma non per sopravvivere come farebbe un blogger aziendale, o un coltivatore diretto.

Per altre mansioni, invece, probabilmente non c'è redenzione: alzi la mano chi adora montare bulloni o compilare fatture...          


La libertà che spaventa

Viviamo in un'epoca di grandi e rapidissime novità per il Mondo, tra tecnologie forse pericolose (o forse no: bentornato in Italia, ChatGPT), competizioni a livello globale, e tanta ansia.

Ma se le nostre possibilità tecniche e le nostre prospettive si ampliano, la nostra idea di lavoro deve restare al passo: la mentalità deve cambiare, non solo tra certa impresa e certa politica rimaste al secolo scorso, ma anche e soprattutto tra di noi e dentro di noi, dobbiamo in un certo senso deprogrammarci e rifiutare le vecchie retoriche sul sacrificio ormai presentato quasi come fine a sé stesso, come se di affanni e di amarezze non ne avessimo già vissute abbastanza.

Dobbiamo avere il coraggio di riconoscere quale lavoro ci dà davvero dignità e quale no, usare i mezzi vecchi e nuovi a nostra disposizione per minimizzare il secondo, e incamminarci verso questo nuovo sentiero verso la libertà.

Una libertà che fa storcere il naso a tanti abituati a dirigere il prossimo, e che magari ci spaventa, e ancora tutta da costruire, ma che già possiamo intravvedere. 

La nostra speranza deve essere rivolta a un lavoro davvero libero, davvero liberatore, davvero umano.

Commenti

  1. Chissà se chi fa un lavoro che gli piace sarà contento. Mi riferisco ai pittori, cantanti e attori nei film.

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    1. Bella domanda, secondo me ritrovarsi in tutte le dinamiche di una professione (scadenze, clienti esigenti, colleghi difficili, eccetera) toglie molta della gioia che viene da questo tipo di attività, ma per ciascuno di noi le cose possono essere diverse.

      Buon 1° maggio!

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  2. IO se fossi un giovincello dopo aver letto il tuo post ...........ti direi: parlami del futuro del lavoratore, tutti inclusi e nessuno esclusi.
    Ma io essendo un preistorico .........il giovane pur lavorando non ha futuro, non lo sa spioegare a se stesso ......... ma lo sente a pelle. Il discorso va visto nella sua globalità degli interessi. Buon primo maggio

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  3. Chi intraprende un'attività lavorativa spesso ha delle ambizioni e delle aspettative. Per realizzarle occorre impegno e bisogna crederci. Bisogna anche raggiungere risultati concreti. C'è chi ci riesce, chi va avanti. Chi, invece non ce la fa, per svariate ragioni. Il lavoro può dare soddisfazioni o delusioni e , a lungo andare, la voglia diminuisce perché subentra la stanchezza sia in chi si è realizzato, sia in chi si è trascinato senza particolari gratifiche. Spesso manca anche il "benessere lavorativo". Mi riferisco alla violazione delle norme di sicurezza, alle retribuzioni inadeguate, allo straordinario non pagato, alle pressioni commerciali eccessive, all'intrusione del lavoro negli spazi destinati al riposo e alla libertà. Alla mancanza di solidarietà che blocca ogni forma di rivendicazione collettiva. Ci si stanca, alla fine. Ma chi è giovane deve immettersi in questo mondo e lottare anche se, chi lo ha preceduto non gli ha lasciato una gran bella eredità.

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    1. Sul "benessere lavorativo" secondo me hai ragione da vendere, oltre la paga c'è molto di più: non a caso c'è chi (finanze permettendo) lascia un posto meglio remunerato ma più stressante per una posizione magari meno prestigiosa ma più a misura di persona.

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  4. Sante parole. Bisogna smetterla di avere questo atteggiamento manicheo e guardare all'intelligenza artificiale come il demonio (poi figurati se c'è di mezzo Bill Gates!) da esorcizzare. Come scrivevo su Reddit e sul mio blog in merito, anzi bisogna cominciare a ragionare su soluzioni sociali in gradi di integrare queste nuove tecnologie nella quotidianità senza nascondere la testa sotto la sabbia. E di sfruttarne i benefici per poter dedicare più tempo all'ozium di cui parli. Poter delegare la produttività (a montare bulloni o compilare fogli Excel) alle macchine, e ricevere i proventi del loro lavoro per sostenerci (i robot ci faranno da mangiare un giorno) e dedicarci alle nostre passioni non è poi così terribile, no?

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    1. Purtroppo deprogrammarci da secoli di propaganda interiorizzata non sarà semplice...

      Grazie per la visita, a presto.

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